Vetro, la Storia.
Anni di trasparenze
Il sostantivo egizio “ntry” è dato dall’aggettivazione della parola “ntr” che significa dio. Con questo fonema “ntry”, si identificava una sostanza divina, un dono degli dei. Il termine generico fu poi utilizzato in ambito greco e successivamente latino rimanendo pressoché immutato. Dallo ntry egizio, al natron o natrium latino, al Na italiano simbolo del Sodio, il passo è breve.
Il natrium, ovvero il sodio, era la parola con la quale nell’antichità si designava in realtà un suo sale, il carbonato di Sodio.
Il Wady el-Natrun è un luogo in Egitto, una depressione 60 metri sotto il livello del mare, dove da millenni affiorano in modo spontaneo cristalli di questo sale che era utilizzato per l’imbalsamazione dei defunti. A tutt’oggi è considerato un luogo sacro, anche dalla cristianità. Nel III secolo vissero nei pressi di questo giacimento molti padri della Chiesa, tra cui (curioso questo gioco di elementi chimici) sant’Ammonio e sant’Arsenio.
Perché citare lo ntry o natrion?
Perché una notte di 5000 anni fa, qualcuno accese un fuoco su una spiaggia (Wady el-Natrum dista un giorno di cammino dal mare) in mancanza di pietre usò dei blocchi di ntry per poggiare del vasellame e cucinare. La cena andò probabilmente persa perché il sale, fondendosi con la sabbia, fece rovesciare il cibo, ma dette origine a una poltiglia che, una volta raffreddata risultò essere liscia, trasparente meravigliosa.
Era nato il vetro.
A razionalizzare l’alone mistico sulla genesi del vetro interviene Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scritta e pubblicata nel 77 d.C.. Nell’opera si attribuisce la scoperta del vetro a mercanti di natron, navigatori fenici sbarcati su una spiaggia nella provincia di Tolemaide (si legga in Siria).
Alcuni studi propongono una versione diversa dei fatti, meno poetica e più pragmatica. Si sostiene che i primi ammassi di sostanza vetrosa si siano ottenuti come residuo di lavorazione nelle fornaci per l’estrazione del ferro dalle rocce.
A ben pensare, sabbie, sali e calore erano “ingredienti” naturali di quei cicli di estrazione.
In Mesopotamia e in Asia Minore, gli scavi archeologici hanno reso piccoli monili in vetro, che emulavano le pietre preziose, risalenti al III millennio a.C..
Il vetro fu impiegato all’inizio esclusivamente per vetrificare, ovvero ricoprire altri oggetti, per esempio anfore di terracotta porosa. Stiamo parlando della tecnica denominata faience più conosciuta (poi) come maiolica o ceramica smaltata.
I primi contenitori cavi, piccoli e spesso poco armonici furono ottenuti colando il vetro su forme che, una volta raffreddato il tutto, venivano rotte o si incendiavano (forme di papiro e cera).
Il vero limite delle produzioni fu la temperatura di esercizio che non permise mai di ottenere vetro fuso,
ma masse dense poco lavorabili. Dalle zone di produzione iniziò il commercio e si può affermare che intorno al V secolo a.C. tutti i popoli del bacino del Mediterraneo avessero in uso oggetti di vetro.
A Olimpia, in quella che è stata nominata l’Officina di Fidia, sono stati rinvenuti resti di vasellame e piatti ottenuti per contatto da forme preesistenti (tecnicamente produzione a calco) risalente al VI secolo a.C..
Il vero cambio di rotta si ebbe nel I secolo a.C. quando, perfezionando le strutture e soprattutto insufflando aria nelle fornaci, fu possibile raggiungere temperature di esercizio assai elevate.
Fu forse in Egitto o in Israele che fu introdotto l’uso di una canna metallica per soffiare aria e si ebbero due effetti, uno voluto, uno insperato:
Nacquero per caso i primi recipienti cavi.
In questo periodo cambiò anche la commercializzazione del vetro. I centri storici di produzione, continuarono a “creare” il vetro dalle materie prime. Il materiale veniva venduto, anche in blocchi, canne o pani che poi venivano lavorati per fusione e trasformati in ciò di cui c’era bisogno. Nascono in questo periodo i vasi colorati, la fusione di canne e nastri di colori diversi e tutta la varietà che anche oggi possiamo ammirare.
Non dimentichiamo la produzione dei vetri per finestre. Fu sotto il governo di Ottaviano Augusto che a Roma fu importata la tecnica della colatura.
All’epoca di Nerone fu autorizzata l’apertura del primo laboratorio vetrario.
Per quanto grezze e spesse, le lastre di vetro cominciarono a ornare le finestre, montate su telai d’ottone. Furono adottate fenestrature a forma di bifora che consentivano di dividere in due il peso delle lastre rispetto alla superficie. La bifora divenne un modello esportabile attraverso le aree geografiche e le varie epoche storiche.
In base alla tipologia di lavorazione è possibile identificare i manufatti, collocarli nella cronologia storica e, in qualche modo, attribuire la provenienza.
Possiamo affermare che alla fine del I secolo d.C. si producevano manufatti con tutte le tecniche possibili che, grosso modo, sono rimaste invariate fino a oggi.
Un’evoluzione delle tecniche di produzione è rilevabile anche dal nome con cui si chiamava questo nuovo materiale.
In principio, in ambito greco fu kyanos (ciano, ovvero blu, usato da Omero) e lithos chytê (pietra fusa), termine usato da Erodoto.
Dal V secolo a.C. in area greca, si identificò il vetro con il termine hyalos, coniato per riflesso di una consapevolezza relativa al progresso tecnologico raggiunto dell’arte vetraria.
Secondo alcuni filologi il sostantivo hyalos, derivato dal verbo hyein (piovere) e significherebbe goccia d’acqua.
Filoloao, un seguace di Pitagora a cui si attribuisce, tra le altre cose, un’originale cosmologia eliocentrica, descrive il sole come un immenso specchio di vetro
(hyaloëidés), “che riceve la luce riflessa dal fuoco dell’universo e la trasmette a noi”.
Il termine hyalos migrò in ambito romano e fu usato per identificare le caratteristiche di trasparenza. Fu questa idea di vedere oltre che suggerì a Lucrezio di coniare un nuovo termine, oggi diremo un neologismo, ovvero, vitreum, dalla radice vid-, presa dal verbo videre, a cui si aggiunge il suffisso –trum per designare la funzione di strumento.
Dunque, l’etimologia di vitrum starebbe a significare: uno strumento trasparente per vedere o per far vedere.
Questa analisi delle tecniche produttive del vetro, incise anche in altri campi dello scibile umano.
Rufo di Efeso, anatomista del I secolo d.C. scrive:
“Delle diverse tuniche oculari quella che appare per prima si chiama ‘simile a un corno’ [la cornea];
quanto ai nomi delle altre, la seconda è chiamata ‘simile a un acino d’uva [l’uvea o l’iris]. Il termine ‘a forma d’acino d’uva’ deriva dal fatto che se si considera la parte che è soggiacente la cornea, essa è dal lato esterno liscia come la pelle di un acino mentre nella parete interna, come l’acino, la sua superficie è rugosa.[…].
La terza tunica comprende l’umore vitreo [hyaloëidés hygrón]; il nome antico è ‘membrana simile a una tela di ragno’ e deriva dalla sua tenue consistenza”.
Ancora oggi il corpo vitreo e la membrana ialoidea, sono i termini con cui si designano le porzioni anatomiche e hanno mantenuto intatto il loro significato, nei millenni.
Ovviamente sulla storia del vetro ci sono moltissime cose da dire, ma a differenza di altre tecnologie, il livello raggiunto nel I secolo d.C. si è praticamente mantenuto fino ad oggi. Ovviamente anche questa tipologia di produzione ha subito migliorie e automatizzazioni, sono stati studiate formule specifiche per usi specifici, ma sempre sulla base di quelle semplici sostanze reperibili in natura che usarono i navigatori fenici alcuni millenni fa.